lunedì 30 gennaio 2012

Il decreto Severino è la terapia antalgica, l’amnistia la cura sistemica


pubblicato il 28 gennaio 2012 da LIBERTIAMO


Le prime tre cariche dello Stato sono d’accordo su una cosa: lo stato delle carceri italiane è del tutto intollerabile. Il Presidente Napolitano ha parlato, già quest’estate, della necessità di porre rimedio al problema come di una “prepotente urgenza” e sono seguiti, negli ultimi mesi e settimane, gli appelli di Renato Schifani e di Gianfranco Fini.
Oltre sessantacinquemila detenuti affollano oggi le carceri che ne potrebbero ospitare al massimo quarantatremila, mancano oltre ottomila agenti di custodia, tutte le altre figure professionali (medici, educatori, psicologi, infermieri, magistrati di sorveglianza) sono sotto organico. Tra un quinto e un quarto di quanti stanno in galera – poco meno della metà del totale dei detenuti è infatti in attesa di giudizio – sappiamo già (statisticamente) che saranno assolti. Il carcere italiano, insomma, “funziona” mettendo a preventivo una quota abnorme di ingiuste detenzioni, scontate per lo più in condizioni disumane.
Il recente decreto presentato dalla ministra Severino è solo un timido passo in avanti. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) e l’estensione della detenzione domiciliare, che contribuirà ad evitare il triste fenomeno delle “porte girevoli” e manderà anticipatamente a casa qualche migliaio di detenuti, rappresenta la terapia antalgica, non la cura sistemica. Tratta alcuni sintomi dolorosi, ma non la malattia, né le sue cause, visto che lo sfascio delle carceri è legato a quello del sistema penale (cioè a come non funziona la giustizia, al modo in cui è intesa e malintesa la pena, alla funzione impropria che è ormai “di fatto” socialmente attribuita alla detenzione…).
L’arretrato da smaltire ammonta ormai a circa nove milioni di processi, 5,5 civili e 3,4 penali. Quelli penali, in parte, non saranno mai celebrati e saranno interrotti dall’“amnistia di classe” della prescrizione. Quelli civili, appesantiti da ritardi secolari, contribuiranno a rendere l’Italia un Paese sempre meno competitivo. La Banca d’Italia, in un recente studio, ha stimato che l’inefficienza della giustizia civile costa l’uno per cento del PIL (in Italia un credito commerciale si recupera in 1.120 giorni contro i 394 della Germania).
L’amnistia, da questo punto di vista, non è una “resa”, ma una via d’uscita dal circolo vizioso dell’inefficienza. Non è la “riforma”, ma la premessa essenziale per fare le riforme che servono, nel civile, come nel penale. Lo ha ammesso apertamente Antonio Buonaiuto, Presidente della Corte d’Appello di Napoli, che ha dichiarato mercoledì scorso che “il rimedio principale sarebbe un’amnistia per eliminare gli arretrati che sono un debito pubblico, un fardello che abbiamo. Naturalmente si lascerebbero fuori i reati più gravi, ma bisogna avere il coraggio di dirle queste cose…” E’ un’opinione sempre più diffusa fra gli addetti ai lavori, i magistrati, gli avvocati, le forze dell’ordine, la polizia penitenziaria: ormai da tempo non è più il solo Marco Pannella a proporre la necessaria amnistia.
La ministra Severino ha giustamente ricordato che la responsabilità è del Parlamento: la sovrana assemblea della Repubblica che, qualche mese fa, si è perfino rifiutata di discutere del problema, e che non sembra, per così dire, propensa ad esaminare la soluzione. Ma l’amnistia sarebbe davvero, come dicono i radicali, anche una “amnistia per la Repubblica”, per restituire cioè il sistema penale ad una ragionevole efficienza e difendibile legalità.

Ripensare il liberalismo, per evitare la frammentazione


pubblicato il 7 maggio 2011 da LIBERTIAMO


Il pensiero liberale ha dimostrato, nel corso degli anni e dei secoli, una notevole capacità di evolversi: non è rimasto fermo a John Locke o a John Stuart Mill.
Proprio per la notevole capacità di autocritica, evoluzione e miglioramento che ha saputo dimostrare, il liberalismo può costruire la base per un nuovo modo di pensare e di realizzare la politica, adeguando le intuizioni e le filosofie dei grandi pensatori di ieri alla dinamica della realtà attuale: da qui può scaturire una nuova alterità liberaldemocratica dirompente e rinnovatrice.

Le categorie novecentesche debbono essere attualizzate, affinché dalle ideologie del XX Secolo possa emergere qualcosa di nuovo e di adeguato alla contemporaneità: una grande alleanza proposta politica liberale, socialdemocratica ed ecologista, sul modello del partito di Nick Clegg in Gran Bretagna o di quello di Guido Westervelle in Germania.

Se da un lato i vecchi identitarismi di stampo novecentesco costituiscono, a tutt’oggi, un serio ostacolo ad un nuovo “Risorgimento liberale”, dall’altro i partiti laici della Prima Repubblica seppero, talora, condizionare pesantemente la DC, fin dai tempi del centrismo degasperiano, per arrivare al primo “centro-sinistra” (1962-63) o alle lotte civili degli anni Settanta (divorzio, assistenza medica all’aborto, obiezione di coscienza). I loro eredi, però, sono oggi marginalizzati e sarebbe ora di invertire la rotta, schivando il serio rischio dell’aggregazione elettorale fine a se stessa: Girasoli, Elefantini e tanti altri obbrobri della partitocrazia recente.

E’, quindi, urgente un terreno di dibattito filosofico e culturale che sappia costruire un’alterità al monopartitismo e alla malapolitica italiana, senza pensare alla pura e semplice sommatoria dell’esistente.
Il pensiero liberale, inteso nella sua accezione più ampia (dal socialismo liberale di stampo rosselliano al liberismo hayekiano), può essere la base per creare un’alterità politica che, in quanto tale, deve per forza sfociare in un’alterità di idee. Il pensiero liberale attraversa, come un fiume carsico, le varie formazioni politiche presenti oggi in Italia, ma esso rimane non determinante e spesso sconosciuto: la politica economica liberale resta costantemente travolta dal centralismo statalista, in campo etico e sociale i diktat vaticani prevalgono trasversalmente.

I liberali presenti nell’agone politico sono emarginati nei partiti di massa, mentre i piccoli partiti di opinione stentano a sopravvivere. Di fronte a questa emarginazione politica, i liberali di ogni estrazione debbono unirsi per affrontare la sfida del nuovo. Tra i filosofi e pensatori politici del passato, nemmeno i migliori potevano immaginare i problemi del mondo attuale, ma la risposta può da un rinnovamento del pensiero liberale.
Per garantire le libertà, ma allo stesso tempo i diritti, occorrono le idee liberali, che sappiano essere laiche, liberalsocialiste e liberiste al tempo stesso.

La flexsecurity di modello danese è socialista?
Si tratta, a mio avviso, del più moderno strumento per modernizzare e razionalizzare il sistema del welfare.
La capitalizzazione individuale cilena è iperliberista?
Rappresenta il modello più equo e competitivo per innovare il sistema pensionistico, evitando che si trasformi in una valanga destinata a travolgere tutti o a lasciare molti a bocca asciutta.

Attraverso questi due concreti esempi, sostengo la necessità di creare un’alterità riformatrice e politica che, seppure ispirata dai grandi pensatori liberali, possa evolversi oltre la “dottrina” del XIX e XX Secolo.
Non è più tollerabile assistere alla dissoluzione dei liberali in politica, né che gli eredi della grande tradizione laica di Croce, Rosselli, Saragat, Pannunzio, Ernesto Rossi e Ugo La Malfa debbano disperdersi in una miriade di formazioni più o meno influenti, all’interno di un sistema di potere illiberale e non democratico.